martedì 13 gennaio 2015

Je ne suis Charlie



Io non sono Charlie. 

Io sono Stefano, un ragazzo con una casa in Occidente, un lavoro tranquillo, qualche rata da pagare e che gode delle sue comodità. Non mi trovo in un fronte di guerra occidentale, non combatto ogni giorno per la mia vita, non vedo attorno a me i miei amici che muoiono trafitti dalle pallottole o smembrati da qualche bomba. E posso anche affermare con molta tranquillità che c’è una enorme differenza fra chi come me è vivo e chi è morto ammazzato da una raffica di spari in nome di Allah.

Io non sono Charlie anche perchè non sono un vignettista irriverente come Charb, come Wolinski, come Cabu e come Tignous. Non sono neanche un economista mondiale o un politico di altissimo livello: sono semplicemente un essere umano come tanti altri. E ogni tanto la satira irriverente di Charlie mi ha dato anche fastidio. Ma rivendico il diritto di Charlie ad essere Charlie e per quello devo battermi, scendere in piazza, gridare sulla rete, alzare le matite in piazza, pubblicare hashtags virali e condivedere foto, anche se identificarsi con le vittime è rischioso quando pensi se saresti stato disposto a fare lo stesso in nome di un ideale, che è la libertà e la parità di espressione.  

E hanno ragione tutti quelli che dicono, sottovoce o in pubblica piazza, che in fondo in fondo Charlie Hebdo se l’è cercata, che se succede qualcos’altro è solo colpa loro, che stanno rischiando a continuare su questa linea e non hanno capito niente. Verissimo. Il problema, però, è inverso: noi non siamo tutti Charlie, ma Charlie Hebdo ha rappresentato una parte di tutti noi, quella che ride di tutto e non ha paura di niente.

Il problema è che per il fanatico siamo tutti Charlie, anche se il mondo non è tutto uguale, e vivaddio, aggiungerei. La possibilità di esprimerci ha portato alla stortura dell’eguaglianza assoluta, perché, come dice Amos Oz, il fanatico è così generoso che, dopo aver scoperto dove sta la giustizia, vorrebbe che tu come sia dalla parte giusta, ovvero la sua, ed è disposto a ucciderti, pur di renderti uguale a lui.  

Dobbiamo imparare a distinguere tra identità e libertà, ma dobbiamo anche imparare a dare il giusto significato alla parità di espressione, non solo per il rispetto che meritano i morti, ma anche per una questione morale ben più profonda; proprio perché non siamo Charlie – e molti di noi non vorrebbero nemmeno esserlo - dobbiamo difendere strenuamente il diritto di qualunque Charlie alla sua libertà, che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui.  

Io non ho bisogno di dire “Je suis Charlie” per condannare quello che è successo a Parigi. Non ho bisogno di essere un fumettista irriverente per sapere che non si uccide in nome di Dio, né tanto meno per motivi politici, economici o culturali. Ma ho bisogno di essere me stesso quando difendo il diritto a dissacrare perché chi si offende per una vignetta, per una battuta (e su Spinoza ne abbiamo viste di cotte e di crude) o per un film al cinema o uno sketch in televisione sta solo dimostrando che ha fondato il proprio potere sulla conformità ad una idea e teme di perderlo reagendo in maniera scomposta, vigliacca, violenta e omicida. In questi giorni si sta riaccendendo il dibattito sul diritto alla satira, se debba essere così ampio, così senza limiti, per alcuni addirittura senza controllo. La risposta, almeno per me, è si, per un motivo molto semplice: chi sa ridere di tutto, anche della propria morte o di quella di qualche caro, ha capito la vera essenza della vita, di questa parentesi temporale su questo pianeta.

Sono convinto che l'umorismo sia lo strumento più forte per reagire al male e alla paura, per rendere inerme l’offesa, e il giorno in cui il mondo imparerà a reagire con umorismo ogni volta che qualcuno uccide in nome di qualunque cosa una persona che ha solo un’idea differente dalla sua, comincerò a credere in un mondo migliore.
Nel frattempo , io, nel mio piccolo, citando Guccini e il suo Cyrano, “non perdono e tocco”.

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